“Il tiglio” di Massimo

                                                                                 IL TIGLIO

Una mattina di novembre io e l’amico Mauro, partiamo di buonora con l’intenzione di andare a far legna da ardere, in un luogo a circa 1200 metri di altezza.
Avevamo già fatto un sopralluogo e visto le piante che avremmo abbattuto, cinque o sei, come dice lui “una gira”. La maggior parte faggi, ed infine un tiglio.
Certo come legna da ardere il tiglio non vale molto, a parte quel caratteristico odore di terra da funghi che si avverte nel fumo denso e bianco che dalla stufa sale al camino. E che a me piace. No, di certo Il tiglio non si trasformerà in legna da ardere, avrà un altro destino.
Lo chiamavo il sergente, lui il tiglio, perché stava a guardia del sentiero che scende giù al “Barbui”, un sergente che ormai aveva fatto il suo corso, e nel bosco si sa, vige una dura regola, i vecchi devono lasciare posto alle nuove generazioni, altrimenti il bosco non si rinnova, invecchia con gravi conseguenze per l’intero ecosistema.
Il mio amico Mauro, boscaiolo di lungo corso, non ama dire molte parole, specie al mattino, e neppure io, pochi cenni, qualche parola … “Iniziamo da qui” … mi dice. Tocca proprio a lui per primo, tocca al sergente.

Mauro ha sempre fatto legna da queste parti, si può dire che vi sia nato, di stagioni su ne ha fatte con i suoi genitori e le loro bestie. Credo che conosca ogni singola pianta di questo posto, ogni sorgente d’ acqua, e ad esagerare, ogni singola pietra.
Mi piace lavorare con Mauro, si inizia al mattino per finire “quando finiamo” dice lui.
Mauro si avvicina alla pianta, la osserva un po’ alla base e solo all’ultimo momento accende la motosega ed inizia a praticare il taglio di direzione. Al termine con il falcetto, tira via il pezzo di legno simile a grande fetta di anguria svelando cosi la prima grande caratteristica di questo legno. La ferita infatti mette in evidenza una polpa bianca come il latte, senza una minima imperfezione, impossibile notare una venatura, una macchia.
La pianta, si capisce ora è ferma, non soffre … probabilmente da qui in poi non soffrirà più.

Non resta che praticare il taglio di caduta, con il quale l’albero si staccherà definitivamente dalla sua radice.
Mauro riaccende la motosega ed inizia nella parte posteriore ad eseguire il taglio di abbattimento, pochi minuti la catena è nuova, i trucioli volano nell’aria.
Non so a quanti di voi sia capitato di assistere al taglio di una pianta direttamente nel bosco, nell’attimo in cui la catena incide il suo profondo solco nel legno, nell’aria oltre che una nuvola di trucioli, si libera l’odore dell’essenza, un odore che rimane impresso nella memoria, difficile da dimenticare, un odore che varia fortemente da legno a legno, il tiglio, il faggio, il castagno, il noce, per non parlare delle conifere, piene di resina.
E mi torna in mente il mio tiglio in piena fioritura, quando seduto alla sua ombra, mi trovo immerso in un frastuono d’insetti che volano alla ricerca del prezioso nettare dei suoi fiori, dal quale, abili apicoltori, quelli di una volta, quelli che hanno la pazienza di portare le api in montagna con i loro trasporti impossibili, ne ricavano dell’ottimo miele.
Ma qualcosa, un forte rumore, mi riporta alla realtà.

Un forte rumore secco… tac.
Il sergente obbedisce per l’ultima volta, si muove ruotando attorno al taglio di caduta prima lentamente poi sempre più velocemente. I rami fendono l’aria, poi frustano il terreno. Il tiglio in pochi secondi cade al suolo.
Mauro dice: “Va bene, è andata”.
E poi aggiunge come se avesse sentito la pianta dirgli qualcosa. “Ehi la, sarai mica nata lì”, in un lapsus sincero a voler dire “volevi mica rimanere lì per sempre”.
Per un onesto senso del dispiacere non inserirò la foto del sergente che giace a terra, pur volendo e dovendo rendere onore a quel senso di dignità che la grande pianta pone, nel rimanere adagiata al suolo.
La pianta continuerà ad ostentare la sua fierezza, apparentemente battuta da quell’impari lotta tra la tecnologia e la natura. Una piccola diavoleria dell’uomo, che in pochi secondi è stata capace di abbattere il ciclope. Forse i nostri vecchi utilizzando l’ascia, la mazza e i cunei, e lo “strumpur”, accompagnati da una grande dose di fatica intercalata da qualche bicchiere di vino, avrebbero restituito alla pianta quell’onore dovuto.
L’onore delle armi.
Ma il tiglio non è ancora battuto, di tempo ce ne vorrà ancora. E pensare che forse da quel corpo senza più radici, rinvigoriranno la prossima stagione, piccoli getti, sui quali spunteranno persino delle foglie…
Da qui in poi il nostro tiglio inizia la sua metamorfosi. Per ora, per questo inverno la pianta rimarrà per vari motivi in montagna, più in là a stagione inoltrata, verrà ricoperta dalla neve fino alla prossima primavera.
L’anno seguente a giugno inoltrato, ritorniamo in montagna per trasportare a valle le piante abbattute l’anno precedente, tra cui il tiglio.
Sezionati i tronchi in parti di circa 2 metri, li carichiamo sul rimorchio del trattore fino a completare la famosa “gira”, dopodiché dovremmo ritornare a valle ma …, prima bisogna fare merenda, e si perché con Mauro si finisce sempre di lavorare fino al tardo pomeriggio, saltando quasi sempre il pranzo.
Ci vogliono due bei panini con la cotoletta a testa, con altrettante bottiglie di vino, un pezzo di toma, una buona fetta di crostata, ed infine un’ora di puro riposo e già…
Così seduti a raccontarsela con lo sguardo rivolto all’altra parte della valle, guardiamo i piccoli paesi che sembrano fermi nel tempo. Ogni tanto il rumore di un’auto che risale lentamente lungo la strada tortuosa, ed ancora qualche campana di mucche al pascolo più in basso.
Un urlo del malgaro “Trudi… guarda alpina”, il cane abbaia dietro una manza, “Alpina … su” urla ancora il malgaro, … poi di nuovo silenzio.
Mauro mi racconta lentamente intercalando un bicchiere di vino nero come l’inchiostro, le storie delle genti passate, o di chi ancora insiste su queste montagne portando avanti un mestiere ormai fuori dal tempo.
Poi per finire il racconto dice… “Vita grama, non conviene più”.
Si è fatta l’ora. Il sole ormai è già oltre il Civrari … o forse dietro Malciaussia, chissà dietro le Levanne …. iniziamo lentamente a scendere a valle.
La settimana successiva, portiamo il tiglio in segheria, qui ci accoglie con un sorriso, uno vecchio scultore con il quale, una volta concordato il prezzo per il lavoro da fare, scambiamo due parole a proposito della scuola di scultura che lui frequenta e che si trova non lontano dalla sua segheria.
Il tiglio ritornerà a casa dopo circa 15 giorni, trasformato in assi dello spessore di circa 8 centimetri. Verrà messo “alla sosta”, dove rimarrà per circa 3 anni prima di poter essere utilizzato come materiale da scultura. Già…è necessario un anno di “sosta” per ogni centimetro di legno da essiccare. Sovrapposti uno sull’altro, gli assi di legno sono spaziati tra di loro tramite listelli di legno spessi pochi centimetri, affinché l’aria circoli liberamente. Sono infine trattenuti insieme, tramite reggette di metallo, adeguatamente strette intorno al tronco.

Il tempo passa, passano le stagioni, e lo sanno bene anche loro, le rondinelle, perché ritornano ogni anno per fortuna puntuali, e sembra che, appostate sul balcone al di fuori della portata dei sempre attenti gatti, controllino, anno per anno, l’asciugatura delle assi.

Ed ecco finalmente che il ciclo si compie, la grande pianta inizia a raccontare la sua storia.
Si perché il tiglio è un legno chiacchierone, e ha sempre voglia di comunicare, specie con chi ha la pazienza di ascoltarlo. Così mi parla di una ghirlanda che ha sempre portato in grembo come una figlia.

Parla di un luccio, che avrebbe sempre voluto vedere, ma che aimè, la prima casa del luccio era troppo a valle, forse lungo le rive della Stura, impossibile per lui guardare così lontano.

Parla anche delle profumate tome messe a stagionare sulle sue mensole da Maria. Alcuni malgari sono convinti della bontà di quel supporto e che il tiglio contribuisca a restituire al formaggio delle eccellenze.
Parla di una comoda sedia originale, poi costruita ed intagliata dall’amico e collega Aurelio, una sedia importante, fatta ancora con le mani, non come certe sedie presuntuose con le gambe costruire di tornio in migliaia di esemplari e che non hanno mai visto il falegname.
Parla via via di mille altre cose che ancora tiene gelosamente nascoste all’interno del suo tronco.
“Cosicché chiuso nel mio laboratorio, ascoltando quella interminabile narrazione mi perdo, rimanendo ipnotizzato dal ripetersi dei secchi colpi del mazzuolo sullo scalpello, che lentamente incide quella polpa bianca come il latte, dall’intenso profumo di terra da funghi, che a me piace”.

Massimo Vitale

Il Tiglio
La domanda che più frequentemente ci pone, le persone che visitano le nostre esposizioni, riguarda i tipi di legno utilizzati per la realizzazione in generale delle sculture.
Sarebbe lungo elencare i numerosi tipi di essenza che ben si adattano a quest’ arte, ce ne sono veramente tante, più o meno nobili. Vorrei invece raccontare il passaggio dal bosco al banco dello scultore, di una pianta, che dopo aver dato molto al bosco ed alle persone che vivono la montagna, si trasforma come ultimo dono all’uomo, in materia narrante per quest’arte.

NON HO VOLUTO INTRODURVI AL RACCONTO CON UNA PREFAZIONE.

ERA GIUSTO CHE  ” IL TIGLIO”  DI MASSIMO VITALE PARLASSE DA SE.

MASSIMO OLTRE CHE SCULTORE SI E’ RIVELATO ANCHE COME UN BRAVO SCRITTORE. TRA LE RIGHE DEL SUO RACCONTO SI PERCEPISCE IL RISPETTO PER LA NATURA , L’AMORE PER LE PICCOLE COSE E LE TRADIZIONI.  CON LE SUE PAROLE CI ACCOMPAGNA IN UN MONDO LONTANO NON ANCORA DEL TUTTO PERSO E L’ECO DELLE MONTAGNE CI RIPORTA ALLE COSE SEMPLICI PIENE DI SIGNIFICATI.